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1992
- mamma volevi un figlio che fosse squisitamente dolce lo hai fatto ma troppo fragile mamma anch'io come sergei ora sono molto molto malato di un male che non so nemmeno io da dove ben provenga anche per me come già accaduto a volodia per una signorina è crollato l'abisso della passione e non posso fare altro che l'invito sii buona vai via vai via sii buona ho tentato anch'io di risolvere l'incidente ormai chiuso io non so ora se sia più nuovo vivere o morire sotto il sole mamma sono riuscito a vivere questa vita che è niente di più di un protocollo a volte in modo stucchevolmente felice mamma questa mia dolcezza di cui tu vai orgogliosa disperatamente cara e a me non restano che pochi spiccioli di cuore mamma lascia che io tolga il disturbo -
INDOSSARE IL PROPRIO CORPO C’è oggi una diffusa tendenza generalizzata a rifiutare il proprio corpo. Non risponde ai canoni della cultura prevalente. In ognuno di noi esiste, lo si voglia o no, una sorta di disagio nel vederci allo specchio. Questo per i più fortunati. Per gli altri si può arrivare persino a turbe nervose. Di casi così se ne possono cantare ormai parecchi. Non è una tragedia. Ci sono cose più importanti cui pensare. E’ comunque un pessimo modo di vivere. Si è cercato nei secoli di lasciarci dietro modelli di condizionamento che parevano insopportabili. E siamo finiti in questa situazione di esseri insoddisfatti. Insoddisfatti di come siamo fatti. E’ venuta a mancarci l’accettazione. Non ci rallegriamo più per ciò che siamo, ma ci rattristiamo per ciò che vorremmo essere. Se questo divario fosse contenuto è probabile che potrebbe essere colmato. Il che vorrebbe dire vivere con una giusta tensione per il proprio miglioramento. Di regola non è così. Perché il modello di riferimento è sempre molto al di sopra di ciò che si è. Il nostro corpo non è sempre da copertina. Una volta probabilmente avremmo potuto persino innamoraci di qualche nostro difetto. Piccolo. Oggi non ci è più consentito. Impeccabili e affascinanti dobbiamo essere sempre all’altezza della situazione. In passato, molto passato, ci si truccava per ingraziarsi una qualche divinità. Segni magici facevano parte di un rituale che trascendeva il quotidiano. Il colorarsi, il vestirsi e l’atteggiarsi erano rivolti ad un qualche dio. Oggi il nostro dipingerci è funzione degli altri. Come un Narciso collettivo continuiamo a specchiarci per vedere se siamo come il modello formato televisione. La moda omologa tutto e tutti. Senza rendercene conto ci standardizziamo nel tentativo di apparire unici. Sempre con maggiore difficoltà indossiamo al mattino il nostro corpo per iniziare una giornata qualsiasi si una vita qualsiasi. Ci facciamo soccorrere da pareri di esperti, diete e ginnastiche indirizzate per darci il benvenuto quando, di fretta, davanti allo specchio ci guardiamo un’ultima volta prima di confonderci con una infinità di altri noi. Di altri noi che hanno lo stesso problema: Come mi vesto oggi? (nel senso di come mi vesto di me stesso). Accettarsi è un privilegio. La pubblicità lo sa e fa di tutto per espropriarcelo. E’ il suo mestiere. Guardarsi, anche dentro, e dirsi “forse non sono un gran che ma io sono io”, è ormai riservato a pochi. A quei pochi che, infischiandosene del dover essere, sono passati dall’altra parte dello specchio. Dove un nuovo Narciso si guarda solo negli occhi degli altri. Da come muoveremo le labbra, e non per dire qualcosa, saprà di piacere o meno.
il rifiuto e il sogno fedele a me stesso mi spiego per poche parole. oggi si parla già così tanto. e le parole sono fonte di malintesi. non cerco nemmeno di essere comprensibile più di tanto. se dovesse essere poco, parlatene con emily, antoine, volodia, matteo. viaggiando per deserti, e per foreste, e per città lontane ho incontrato quella creatività che da noi non si usa più. l’ho raccolta e portata con me. le ho riservato tutta la cura di cui sono capace. è così fragile e splendidamente inutile. come i ricordi. ho imparato a condividere la sorte di ciò che è stato e non è più. la sorte del rifiuto. il rifiuto che è lì e non deve più niente a nessuno. non chiede niente. quello che doveva fare lo ha fatto. non vuole essere capito e nemmeno di essere ringraziato. il ringraziare, come l'addomesticare, è una cosa ormai dimenticata. tanto più oggi in questa civiltà dell'usa e getta. non importa se lattina o cuore o uomo. il rifiuto è poi comunque lì per servire ancora. se serve. e certamente serve se diventa sogno. a volte si potrebbe tentare di ritornare ad essere ciò che si era. non ne vale la pena. conviene lasciare agli altri la quotidianità. è meglio rendere e rendersi sogno. sino a quando ci sarà qualcuno capace di farlo, allora si avrà un prato. anche senza avere un trifoglio e un'ape. è con una qualsiasi vuota lattina gettata via che ci si può costruire una macchina che non si avrà mai. è su un insulso amorucolo primaverile che ci si inventa un amore eterno. è la pietra che il costruttore ha riprovata che diventa pietra angolare su cui verrà edificata la città dell'utopia. sì, proprio qui sta il riscatto di ciò che è stato svuotato, consumato, rifiutato, reso rifiuto. e alcuni di questi rifiuti diventati sogno li porto agli occhi degli altri. io,no.
[dal catalogo dell’esposizione ecopoli della Città di Torino - dicembre 1992 Testo dell’installazione sui giocattoli poveri presso il Museo A come Ambiente di Torino]
- giacomo il sarto – a quante donne ho cucito il vestito (due lunghezze di lino per la gonna e una per la camicia) mi chiamavano mino musoduro perché io ero sempre troppo io per ridere quando gli altri ridevano attento e preciso come un artista per ogni ragazza trovavo i colori e i tagli che non potevano essere altri no io non creavo niente facevo indossare loro se stesse ho fatto io il vestito a maria l'impiegata del comune che nonostante le fossette alle guance dolci come la sfacciata allegrezza della sua voce non aveva preso marito arrivò imprevista come l'ouverture del tannauser in questo paese dio solo sa quante volte ho misurato quel benedetto vestito non avevo premura di invecchiare sempre troppo largo per lei che lo voleva sempre più stretto e io non facevo niente per stringerlo tra una misura e l'altra le mie mani sono corse con tutta la dolcezza di cui erano capaci lungo le pieghe della sottana e il pollice e l'indice lungo le pinces ho cancellato il suo nonostante tutto grigio quotidiano con uno splendido rosa antico ho cucito la sua immagine di donna sottraendo alla notte il tempo per pensarla in quella mia bottega colorata e fragile e così stretta tanto che non ci fu più posto neanche per wagner sì io l'ho così desiderata sulle mie labbra si potevano ormai leggere le smorfie delle sue sì l'ho amata come si amano le stelle senza mai raggiungerla. - maria l'impiegata – il mio insolito lavoro al comune del paese impaginare le parole degli altri per l'applauso degli occhi ero terribilmente orgogliosa e imprevedibile come la mia vita incerta avrei voluto vivere tra pantaloni da stirare e allattare figli come una gatta ho passato il mio tempo a cercare invano di cancellare quel nonostante tutto grigio quotidiano delle pagine sebbene non più ragazzina mi sono fatta vestire di colori da giacomo il vecchio sarto che presto chiamai con il solo diminutivo e sebbene avessi premura di vivere nella mia insensatezza avevo voluto che l'erba voglio nascesse nel mio giardino per conoscere la sua dolcezza sì ho misurato una infinità di volte il vestito che dicevo di volere stretto tornavo di tanto in tanto a riprovarlo sapendo che lui non aveva spostato un solo punto le sue mani da me così desiderate in qualsiasi punto mi sfiorassero toccavano il mio cuore respiravo a fatica e non per via della cintura l'avrei forse amato per sempre se solo avesse con me condiviso la sua bottega così vuota mi considerava irraggiungibile come una stella e come una stella sono rimasta sola.
Siamo distanti da Spoon River. Per anni e chilometri. Eppure ancora oggi anche da noi probabile accadano storie del genere.
- Elogio della voce - Si vive per dettagli. Per dettagli ci si innamora. Siamo razionali solo in apparenza. Su di un solo particolare che ci affascina e che riscontriamo in un'altra persona costruiamo storie amorose persino stucchevolmente dolci. Per chi non le vive. Tra i principali segnali che concorrono al gioco va posta la voce. La voce nel suo insieme. In quello che dice e in come lo dice. La voce non ti consente d'essere banale. Diventa il mezzo di trasporto del tuo modo di essere. E la voce che ti propone agli altri nel sottile gioco della seduzione. La voce riempie lo spazio di suoni e silenzi. Si può comunicare anche per silenzi. Quando le parole lasciano spazio al non-detto. Quando ci si dice tutto senza pronunciare parola perché la comunicazione è comunque chiara. Il tono, il timbro, la costruzione della frase, le pause. Tutto crea quel mondo magico in cui l'innamorato si è perduto. Tra l'indifferenza degli altri. A volte non è nemmeno necessario vedersi per incontrarsi. Basta sentirsi. Sentirsi per sapere della presenza dell'altro. Si può dire che queste cose appartengono al un passato persino remoto. Non è così. Ognuno di noi non può non amare d'essere accarezzato dalle parole che gli arrivano. Si presta troppo poca attenzione al nostro parlare. Non è indifferente usare una parola rispetto un'altra. Non è indifferente usare un certo tono rispetto ad un altro. Non è indifferente fare una pausa in un punto della frase piuttosto che in altro. Il parlare non è una semplice formalità per comunicare attraverso la parola. Tutto è molto più complesso. Così quanto si sta dicendo può sembrare un elogio alla finzione. Ma la forma è anche contenuto. E se anche così non fosse, allora sarebbe comunque da preferirsi la finzione alla realtà. Introdurre nella grigia quotidianità anche una sola colorata fragile bolla di sapone vuole dire avere almeno tentato di vivere in un mondo colorato. Persino l'attesa diventare un motivo di speranza. Una scommessa con il futuro. Sono certo che nonostante tutto riascolterò la tua voce significa essere un po' addomesticato - (Addomesticare significa creare dei legami. E' una cosa troppo dimenticata). E' necessario esserlo. Anche se si è seri. Soprattutto se si è seri. Impossibile sottrarsi alla sottile seduzione di una voce chi ti ordina dolcemente di amarla. In quanti modi si può dire una stessa cosa. E basta risentire una voce amica che via via se ne sta andando lontano. Sempre più lontano. Dove il silenzio è proprio solo silenzio e basta. E' una questione di vita o di morte. Già. E per dettagli si può anche morire. [da “il foglio” n 193 - anno XXII - n 8 – Torino - agosto 1992]
- chi conta siede alla destra del padre un brutto tiro è mancino l’individuo poco raccomandabile è invece sinistro e sinistro è anche il futuro se promette poco di buono a sinistra vanno i dannati ma a sinistra c’è il cuore e tanto mi basta –
agosto 1992 [da “il foglio" n 195 - anno XXII - n 10 - Torino - dicembre 1992]
Succede che si colgano al volo parole, o meglio espressioni, tanto lontano da noi quanto affascinanti. E’ successo durante la traversata in cammello (in realtà dromedario) della zona desertica, nell’intorno di Timinoun, di sentire questo canto probabilmente di origine tuareg. La versione soffre delle numerose traduzioni di passaggio. Ciò nonostante ripropone, in modo verosimilmente fedele, l’erotismo esplicito del messaggio amoroso (forse) tuareg. CANTO PER LE ORECCHIE DI UNA GAZZELLA 1) Dimmi - cosa porterai alle orecchie per darmi il benvenuto Dimmi - che non porterai orecchini ma le tue ginocchia Dimmi Canto d’amore Tuareg (?) Ri-scrittura Mino Rosso 1) La gazzella, nel linguaggio figurato dell’area sahariana di cultura berbera, rappresenta la ragazza da marito. [Timimoun – giugno 1992] Pagina: 1 2 Prossima |
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